Quello che una lettera può fare...

Settimana scorsa  un giovane ragazzo di 17 anni, Davide Tancredi,  ha scritto una lettera indirizzata al direttore del quotidiano Repupplica in cui confessa il suo sconforto nell'essere gay in un paese come questo che lo pensa a tentare il suicidio per l'odio che subisce. Per chi non l'avesse letta, ecco il testo:

CARO direttore, questa lettera è, forse, la mia unica alternativa al suicidio. Ciò che mi ha spinto a scrivere è la notizia di un gesto avvenuto nella cattedrale parigina. Un uomo, un esponente di destra, si è tolto la vita in modo eclatante sugli scalini della famosa chiesa per manifestare il proprio disappunto contro la legge per i matrimoni gay deliberata dall'Assemblea Nazionale francese.

Nonostante gli insegnamenti dalla morale cristiana, io ritengo che il suicidio sia un gesto rispettabile: una persona che arriva a privarsi del bene più prezioso in nome di una cosa in cui crede, merita molta stima e riguardo; ma neppure questa considerazione riesce a posizionare sotto una luce favorevole quello che mi appare come il gesto vano di un folle. La vita degli altri continua anche dopo la fine della nostra. Siamo destinati a scomparire, anche se abbiamo riscritto i libri di storia. Morire per opporsi all'evolversi di una società che tenta di diventare più civile è ottusità e evidente sopravvalutazione delle proprie forze.

Il Parlamento italiano riscontrando l'epico passo del suo omologo d'oltralpe ha subito dichiarato di mettersi in linea per i diritti di tutti. Una promessa ben più vana del gesto di un folle. Tutti sappiamo come il nostro Paese sia l'ultimo della classe e che non ci tenga ad apparire come il più progressista. Si accontenta di imitare o, peggio ancora, finge di farlo. La cultura italiana rabbrividisce al pensiero che due persone dello stesso sesso possano amarsi: perché è contro natura, perché è contro i precetti religiosi o semplicemente perché è odio abbastanza stupido da poter essere italiano. Spesso ci si dimentica che il riconoscimento dei matrimoni omosessuali non significa necessariamente affidare a una coppia "anormale" dei bambini ma permettere a due individui che si vogliono bene di amarsi. In questo consiste il matrimonio, soprattutto nella mentalità cattolica. E allora perché quest'ostinata battaglia?

Io sono gay, ho 17 anni e questa lettera è la mia ultima alternativa al suicidio in una società troglodita, in un mondo che non mi accetta sebbene io sia nato così. Il vero coraggio non è suicidarsi alla soglia degli ottanta anni ma sopravvivere all'adolescenza con un peso del genere, con la consapevolezza di non aver fatto nulla di sbagliato se non seguire i propri sentimenti, senza vizi o depravazioni. Non a tutti è data la fortuna di nascere eterosessuali. Se ci fosse un po' meno discriminazione e un po' più di commiserazione o carità cristiana, tutti coloro che odiano smetterebbero di farlo perché loro, per qualche sconosciuta e ingiusta volontà divina, sono stati fortunati. Io non chiedo che il Parlamento si decida a redigere una legge per i matrimoni gay  -  non sono così sconsiderato  -  chiedo solo di essere ascoltato.
La lettera del giovane Davide non è rimasta inascoltata e ha ricevuto una risposta, sempre mediante il quotidiano, dalla presidentessa della Camera, Laura Boldrini e per chi non l'avesse letta, ecco il testo integrale:

Caro Davide, questa lettera te l'avrei scritta comunque, anche se non fossi presidente della Camera. Ho una figlia poco più grande di te, e t'avrei scritto come madre, turbata nel profondo dal tuo grido d'allarme, dalla solitudine in cui vivi, dal peso schiacciante che devi sopportare perché "non a tutti è data la fortuna di nascere eterosessuali". Scrivo a te per stabilire un contatto, e sento il dolore di non poter più fare lo stesso con una ragazza di cui stanno parlando in queste ore i giornali. La storia di Carolina fa male al cuore e alla coscienza: ha deciso di farla finita, a 14 anni, per sottrarsi alle umiliazioni che un gruppo di piccoli maschi le aveva inflitto per settimane sui social media. E consola davvero troppo poco apprendere che ora questi ragazzini dovranno rispondere alla giustizia della loro ferocia.

Vi metto insieme, Davide, perché tu e Carolina parlate a noi genitori e ad un Paese che troppo spesso non sa ascoltare. Tu lo hai fatto, per fortuna, con le parole affilate della tua lettera. Lei lo ha fatto saltando giù dal terzo piano. Ma descrivete entrambi una società che non sa proteggere i suoi figli. Non sa proteggerli perché oppressa dal conformismo, incapace di concepire la diversità come una ricchezza per tutti e disorientata di fronte ai cambiamenti. Una società in cui - ancora nel 2013, incredibilmente - tu sei costretto a ricordare che "noi non siamo demoni, né siamo stati toccati dal Demonio mentre eravamo in fasce". A te sono bastati i tuoi pochi anni per capire che "non c'è nessun orrore ad essere quello che si è, il vero difetto è vivere fingendosi diversi". Una società che non sa proteggere i suoi ragazzi dalle violenze, vecchie e insieme nuove, come quella che ha piegato Carolina: lo squallido bullismo maschile antico di secoli, che oggi si ammanta di modernità tecnologica e con due semplici click può devastare la vita di una ragazza in modo cento volte più tremendo di quanto sapessero fare un tempo, quando io avevo la tua età, i più grevi pettegolezzi di paese.

Ti ringrazio, Davide, perché hai avuto il coraggio di chiamarci in causa, di mettere noi adulti di fronte alle nostre responsabilità. Le mie sono sì quelle di madre, ma ora soprattutto di rappresentante delle istituzioni. E ti assicuro che le tue parole ce le ricorderemo: non finiranno impastate nel tritacarne quotidiano, che ci fa sussultare di emozione per qualche minuto, e poi ci riconsegna all'indifferenza. Il compito del nostro Parlamento lo hai descritto bene tu, che pure hai molti anni in meno dell'età richiesta per entrarci: "Un Paese che si dice civile non può abbandonare dei pezzi di sé. Non può permettersi di vivere senza una legge contro l'omofobia, un male che spinge molti ragazzi a togliersi la vita". L'altro giorno, in un incontro pubblico contro la discriminazione sessuale, ho sentito ricordare il ragazzo che amava portare i pantaloni rosa, e che oggi non c'è più. A lui, a te, le nostre Camere devono questo atto di civiltà, e spero davvero che la legislatura appena iniziata possa presto sdebitarsi con voi.

Così come ritengo che sia urgente trovare il modo per crescere insieme nell'uso dei nuovi media. Le loro potenzialità sono straordinarie, possono essere e spesso sono poderosi strumenti di libertà, di emancipazione, di arricchimento culturale, di socializzazione. Ma se qualcuno li usa per far male, per sfregiare, per violentare, non possiamo chiudere gli occhi. Il problema, in questo caso, non è quello di varare nuove leggi: gli strumenti per perseguire i reati ci sono e vanno usati anche incrementando, se necessario, la cooperazione tra Stati. Ma sarebbe ipocrita non vedere la grande questione culturale che storie drammatiche come quella di Carolina ci pongono: i nostri ragazzi, al di là della loro invidiabile abilità tecnologica, fino a che punto sono consapevoli dei danni di un uso distorto dei social media? E noi adulti - le famiglie e la scuola - siamo in grado di portare dei contributi per una gestione più responsabile di questi strumenti? Vorrei che ne ragionassimo anche nei luoghi istituzionali della politica.

Hai chiesto di essere ascoltato, Davide. Se ti va, mi farebbe piacere incontrarti nei prossimi giorni alla Camera, per parlare di quello che stiamo cercando di fare. A Carolina non posso dirlo, purtroppo, ma vorrei egualmente conoscere i suoi familiari. Per condividere un po' della loro sofferenza, e perché altre famiglie la possano evitare.
Che questa lettera faccia smuovere il Parlamento a fare qualcosa per i diritti civili più di tante parole dette senza convizione? E soprattutto spero vivamente che questa lettera possa far aprire gli occhi a tutte quelle madri e a tutti quei padri, inclusi quelli che siedono al Parlamento, che l'omosessuale non è la marketta dei b movie degli anni '70 e '80, ma il ragazzo della porta accanto e perché no, il proprio figlio.

Rubrica: Francesco Sansone
Grafica: Giovanni Trapani
Fonte: Repubblica

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